Palazzo del Quirinale, 23/09/2016 (I mandato)
Signor Presidente, Signor Presidente Napolitano,
Signori Presidenti degli Organi Costituzionali,
Autorità,
gentili ospiti.
Le storie di un paese (e per "storie di un paese" intendo quelle opere di sintesi che ne ricostruiscono a grandi linee le vicende) sono innanzitutto lo specchio delle interpretazioni degli studiosi che le hanno scritte; sono però anche lo specchio di più vasti sentimenti e immagini collettive: sono - in qualche modo - vere e proprie autobiografie nazionali.
Che cosa ci dicono queste nostre "autobiografie" di Aldo Moro? Anche se le carte di Moro, e tantissime fotografie e testimonianze, parlano di un grande attaccamento popolare nei suoi confronti, Moro è stato certamente uno dei leader più controversi che il paese abbia avuto: specie tra i politici e gli intellettuali ha trovato detrattori accaniti e sostenitori appassionati, è stato - come pochi - amato e addirittura odiato. Non stupisce allora che le storie d'Italia ce ne diano immagini fortemente contrapposte: il «Giolitti cattolico», il politico cioè che coniugava apertura al «paese reale» e trasformismo clientelare; il tessitore del «compromesso storico», esaltato dagli uni fino a farne un martire dell'apertura ai comunisti ed esecrato dagli altri come il principale architetto di questa ipotesi; il simbolo, infine, della "prima Repubblica", che Moro avrebbe incarnato nei suoi limiti, nei suoi pregi, nel suo dramma.
Queste letture hanno due limiti essenziali. Innanzitutto, hanno un legame troppo stretto con la lotta politica: prendono direttamente le mosse da topoi interpretativi nati già nei primi anni delle controversie sul centro-sinistra e ripresi poi in quelli della solidarietà nazionale; dipendono insomma dall'aspro confronto che si svolse nel dibattito pubblico tra l'immagine del Moro «gattopardo» levantino, come lo descrisse - ricorderete - Leonardo Sciascia, e quella del Moro profeta dell'incontro con i comunisti e di conseguenza vittima sacrificale di una scelta coraggiosa. In secondo luogo, queste letture risultano tutte dominate dal "caso Moro", con la conseguenza non solo di una netta sproporzione fra quanto ci si è concentrati sul Moro prigioniero delle Brigate rosse e quanto sui tanti decenni della sua attività politica, ma anche di una sorta di paradossale "proiezione interpretativa all'indietro", della tendenza, cioè, a leggere la vicenda di Moro non a partire dal suo inizio, ma dalla sua fine, come se quest'ultima fosse la chiave rivelatrice di tutto.
Si badi bene. Le interpretazioni contrastanti in merito a un leader politico della centralità di Moro sono non solo inevitabili ma legittime, come è legittimo e inevitabile che nel suo nome e richiamandosi alla sua esperienza si sia continuato a fare politica. Tuttavia, a un certo punto, deve venire il momento dell'approfondimento conoscitivo, il momento in cui occorre ripetere il grido che Marc Bloch (l'Einstein di noi studiosi di storia) lanciò di fronte alle polemiche sulla Rivoluzione francese: «Robespierristi, anti-robespierristi, noi vi chiediamo grazia: per pietà, diteci, semplicemente, chi fu Robespierre». Anche le passioni civili infatti non possono essere esercitate "al buio", o peggio nella distorsione e nel preconcetto.
Così pure, è non solo legittimo ma doveroso continuare a sentire che il «caso Moro» è una ferita aperta che richiede ancora risposte di verità. Tuttavia, anche qui, basta riflettere: quasi 62 anni di vita contro 55 giorni. Possono questi ultimi "fagocitare", come spesso purtroppo avviene, tutta una figura e una personalità?
Bisogna riconoscere che di recente qualcosa è cominciato a cambiare, anche grazie all'impegno dell'Accademia di studi storici Aldo Moro: è venuta progressivamente emergendo una nuova generazione di studiosi, che nel 1978 non erano nemmeno nati e che hanno cominciato a studiare Moro al di fuori delle contrapposizioni e degli schemi del passato; nel 2011, per la prima volta, gli scritti su tutti gli altri aspetti della sua esistenza hanno superato per numero (anche se ancora di poco) quelli dedicati ai 55 giorni del rapimento. Tuttavia, il discorso è appena cominciato.
C'è un episodio che mi è sempre sembrato emblematico. La sera prima di essere rapito dalla Brigate Rosse, Moro venne trovato, all'una di notte, dal figlio Giovanni, immerso nella lettura di uno dei grandi testi della teologia del Novecento: Il Dio crocefisso del protestante Jürgen Moltmann. Per chi non conosceva Moro il fatto ha qualcosa di sorprendente: come poteva un leader politico impegnato come lui (e in quel momento certo in modo particolarissimo) cercare, e trovare, il tempo per questo tipo di interessi e di esigenze? Esso impone allora di riflettere sulla complessità della figura di Moro e di chiedersi se, per molti aspetti, questa resti ancora tutta da esplorare.
Allora, se in occasione di questo centenario si vuole davvero onorarne la memoria e farne conoscere il profilo agli italiani, credo che occorra superare, per quanto è possibile, le vecchie contrapposizioni, che occorra "liberare" Moro - almeno in questo senso - dal carcere brigatista, che occorre mettere sullo sfondo il dramma che ha accompagnato la sua fine e occuparsi di lui come politico - naturalmente - ma anche come intellettuale, come giurista, come cristiano, come uomo. A fare un politico, del resto, non sono solo le idee, la scala di valori, la cultura; sono anche la psicologia, gli affetti, i principi profondi e inconsapevoli, la mentalità. E proprio Moro, da tanti presentato, come politico tout court, ha sempre faticato a sentirsi "politico di professione", ha rivendicato a lungo il ruolo di chi si collocasse «al di là della politica» - come recita il titolo di un suo articolo -, ha accettato solo con molta riluttanza e sotto forti pressioni di rinunciare alla carriera universitaria e di candidarsi alla Costituente, ha vissuto a lungo il suo impegno politico come transitorio, ha pensato più volte (e ancora alla fine degli anni sessanta) di lasciarlo. Moro apparve del resto immediatamente un politico "diverso" dagli altri. Nel settembre 1965 il direttore di un grande rotocalco nazionale scriveva: «Moro è un lungo enigma, per me. Quest'uomo che non vuole essere fotografato, che non vuole essere intervistato, che non vuole essere citato, che non vuole essere nemmeno lodato, da dove viene? E dove andrà? E come diavolo ha fatto a capitare in mezzo a noi?».
Oggi di questa originalità siamo in grado di ricostruire molti elementi.
Questo leader nazionale (e forse internazionale) è stato innanzitutto un uomo della provincia, e del Sud. Veniva da una famiglia di piccola borghesia meridionale, di maestri, a loro volta figli di maestri, tra i due poli del Salento (paterno) e della Calabria (materna). Questa formazione meridionale è stata colorata però di tanti elementi di modernità. Il padre era uno dei maggiori esperti di scuola elementare, e in particolare di scuola rurale, a livello nazionale. La madre era una convinta assertrice dell'emancipazione femminile, scriveva su giornali non solo locali, teneva conferenze. A unire i genitori fu così anche una comune passione umanitaria, i fermenti del riformismo di inizio secolo, da Giovanni Cena alla Società per gli interessi del Mezzogiorno di Umberto Zanotti Bianco. La meridionalità di Moro, che spesso viene dimenticata nei discorsi su di lui, è invece fondamentale per capire moltissimi aspetti della sua personalità. Moro ha sempre visto la scuola - come già era per i suoi genitori - come straordinaria occasione per riunificare l'Italia e soprattutto per l'emancipazione delle classi più povere. Moro non fece come tanti meridionali alcuna esperienza resistenziale ed ebbe un impatto difficile con la nuova Italia dei CLN, divenendo uno degli interpreti più attenti e profondi della protesta del Sud. Moro votò repubblicano ma fu anche molto comprensivo delle ragioni dei monarchici. Soprattutto, uomo che veniva dal Sud, che si era formato nel Sud e che considerava il Sud come una riserva importante e positiva, è sempre stato uno dei politici italiani più attenti all'equilibrio del paese. Beniamino Andreatta ha testimoniato che Moro si esprimeva sull'Italia con questa metafora: «il paese era come un castello di carte; si poteva cercare di costruire un ulteriore piano, ma bisognava appoggiare le carte con grande delicatezza e trattenere il respiro. Altrimenti crollava tutto». Da questo punto di vista Moro ha sempre tenuto presente il valore di quella parte d'Italia che poteva sembrare meno avanzata culturalmente, socialmente, economicamente, politicamente, ma che non poteva e non doveva essere dimenticata, pena il fallimento complessivo. Occorreva ricordare infatti che esisteva un "paese profondo" che non era quello delle avanguardie intellettuali dei grandi centri - Milano, Roma -, e che esso poteva e doveva dare, che andava capito e portato sul terreno del progresso.
Secondo elemento. Animato da una profondissima religiosità personale, Moro è stato anche uno degli uomini di cultura più laica espressi dal cattolicesimo italiano. Leader del partito cristiano, veniva da una famiglia che, contrariamente a quanto spesso si sente ripetere, non era una famiglia cattolica. E fu nella sua stessa famiglia, innanzitutto, che egli vide praticare una quotidiana esperienza, assieme, di fede e di laicità, tra una madre religiosissima, ma animata da un cristianesimo aperto a tutte le realtà terrene e basato sulla frequentazione quotidiana del Vangelo, e un padre laico, non anticlericale ma critico di ogni dogmatismo. Ancora prima dell'approdo, pur fondamentale, alla Federazione Universitaria Cattolica Italiana, la FUCI di Giovanni Battista Montini, Moro vivrà così la sua fortissima esperienza di credente essenzialmente come sforzo di apertura alla vita e all'umano, rifiutando ogni contrapposizione al "mondo" laico. Il primo tema che Moro, appena nominato presidente, suggerì alla riflessione della FUCI nel 1939 fu quello dell'«umanesimo cristiano»: lo rovesciò presto, però, in quello di un «cristianesimo umano», un cristianesimo cioè che - come scriveva - «parli un linguaggio umano, dica parole che vengano da uomini, con una fondamentale salda fiducia nella verità dell'umanità». E l'anno dopo, analogamente, propose quello dell'«adesione alla vita», negando esplicitamente che «il cristianesimo» potesse essere vissuto come «forma astratta e statica». Non si trattava insomma di partire dalle certezze della dottrina o del dogma, ma dalle ansie e dai problemi di tutti, da un'esperienza condivisa di vicinanza alla condizione umana. A questo modo profondo di essere cristiano Moro si è sempre attenuto. Il suo era un metodo, un modo di essere, più che un contenuto preciso, ma avrebbe costruito in lui una tendenza a mediare, in nome della loro verità profonda, posizioni lontane e talvolta antitetiche fra di loro. I due versanti, quello religioso e quello laico, in Moro non sarebbero così mai stati disgiunti, né contraddittori, ma sostanzialmente indipendenti. Molti altri leader cattolici, pur con sensibilità laica, avrebbero cercato una sintesi tra dimensione religiosa e dimensione politica: questa sintesi in Moro non c'è; e non per errore, o scarsa consapevolezza, ma per la radice così autonomamente laica della sua politica. Sta forse qui, ancora oggi, la sua modernità.
Un terzo elemento originale è un'appartenenza generazionale vissuta come luogo di costruzione di un'identità comune e non conflittuale. La sua vicenda fu quella dell'ingresso di tanti giovani nella vita politica dopo la guerra, ma, anche qui, con un profilo peculiare. Gli storici ci hanno descritto molto bene quella minoranza di giovani che si schierò precocemente contro la dittatura, impegnandosi generosamente e con rischio e sacrificio personale nell'attività clandestina; altrettanto in dettaglio conosciamo le vicende, dall'altra parte, degli illusi dal regime, di coloro che credettero finché poterono nei miti dell'eroismo, del sacrificio, della potenza, della violenza. Ancora sfuocata appare invece la storia dei tanti giovani italiani che non appartennero né al primo né al secondo gruppo. Ho lavorato intensamente negli ultimi mesi nell'archivio personale di Moro: c'è in esso una corrispondenza degli anni di guerra fatta di migliaia di lettere con ragazzi italiani, membri della FUCI, membri dell'Azione Cattolica del Sud, commilitoni, studenti dell'università di Bari, studenti che lo hanno avuto professore al liceo. La prima cosa che colpisce in questo ciclopico sforzo di scriversi e rimanere in contatto è il fatto che il fascismo, Mussolini, il regime non vi hanno alcun posto. Anche coloro che sono in procinto di partire per il fronte e che si dichiarano pronti a sacrificarsi per i compagni e per la patria, chiedono semplicemente vicinanza umana e preghiera, esigono - al posto del "cameratismo" - attenzione personale e affetto, non parlano di vittoria; esprimono - invece che l'«odio al nemico» - condivisione per le sofferenze di tutti i popoli, e addirittura simpatia per tutti i ragazzi che combattono come loro anche dall'altra parte della barricata, si augurano una pace prossima; guardano ad Aldo, ma come modello di vita intellettuale e spirituale, mai come a un capo. Questi ragazzi non fanno e non farebbero mai azione clandestina antifascista; riaffermano però la lontananza dei loro ideali di un mondo futuro più giusto e più libero da quelli - come dicono per sfuggire alla censura - «della massa». È un po' come se, tra fascismo e anti-fascismo militante, questa generazione fosse "altrove", portatrice di un rifiuto, prima che politico, morale ed esistenziale (e in un certo senso ancora più abissale), della prassi e dei valori fascisti. Ma proprio questa generazione, una generazione che si sente unita dall'esperienza della guerra e della sconfitta, che rifiuta un programma ricostruttivo deduttivo e astratto lontano dalla concreta realtà del paese, che ha qualche difficoltà ad accettare le inevitabili divisioni partitiche che verranno, sarà quella che darà un contributo fondamentale e concreto alla Ricostruzione.
Non stupisce allora che tanti di questi giovani (e Moro con loro) arriveranno all'impegno politico solo dopo un lungo e non sempre facile itinerario di impegno civile. Moro lo comincerà in chiave esplicitamente non confessionale nell'esperienza barese della Rassegna, collaborando con un gruppo di giovani intellettuali indipendenti e di varia provenienza politico-culturale. Già nell'ottobre 1943 sarà proprio Moro a parlare ai giovani da Radio Bari. Gli dirà che «troppe volte» il fascismo aveva parlato di loro, facendoli sembrare - cito - «i credenti di una fede che non sentivate, i sostenitori di una causa che non era la vostra», sottolineerà il fatto che ora, «nell'ora della rinascita della Patria», essi erano invece «presenti e attivi» col loro «vero cuore - cito ancora - in questa dolorosa primavera [...] di riscossa». Gli ricorderà che erano stati «anticipatori», perché «la più oscura e triste età della nostra storia nazionale», il regime, era finita «soprattutto per la reazione» del loro «spirito» che «in libertà» aveva «giudicato e condannato». E mi piace ricordare proprio oggi che, di lì a qualche mese, un altro di questi giovani sarebbe giunto a Bari per unirsi all'esercito italiano, combattere contro i tedeschi e militare nel Partito d'Azione, e avrebbe raccontato a Giovanni Moro di aver conosciuto Aldo e di aver collaborato con la Rassegna: Carlo Azeglio Ciampi.
Moro alla fine approderà alla DC, ma considerando il partito cattolico come un centro di equilibrio ideale, in grado di risolvere in sé le tante verità parziali degli "altri": un punto di arrivo, dunque, che si fondava storicamente e laicamente come necessità politica, e non rappresentava una scontata appartenenza confessionale. E difatti Moro sarà uno tra i pochi della nuova generazione di giovani cattolici ad approfondire i contenuti della tradizione popolare di uno Sturzo e di un De Gasperi, ma farà esattamente lo stesso anche con quella liberale di un Croce e con quella socialista di un Silone. Si comprende allora anche la Costituente: avrebbe potuto costituire una grande rappresentazione pubblica in cui andava in scena la battaglia tra culture politiche diverse unite solo dal rifiuto del fascismo; e invece, se ne rileggiamo oggi gli atti, essa appare come il luogo di costruzione di una cultura politica davvero largamente condivisa. Non che Moro non fosse consapevole della natura di convivenza forzata dell'intesa costituzionale. Fu però anche uno di coloro che ne segnalò il grandissimo valore comune: «se nell'atto di costruire una casa nella quale dobbiamo ritrovarci tutti ad abitare insieme - dirà all'assemblea - non troviamo un punto di contatto, un punto di confluenza, veramente la nostra opera può dirsi fallita. Divisi - come siamo - da diverse intuizioni politiche, da diversi orientamenti ideologici, tuttavia noi siamo membri di una comunità, la comunità del nostro stato e vi restiamo uniti sulla base di un'elementare, semplice idea dell'uomo, la quale ci accomuna e determina un rispetto reciproco degli uni verso gli altri».
Quarto elemento. Moro è stato un "politico dello studio". Mi ricordo quando, da ragazzo, l'estate a Terracina, dove vivevamo vicini, lo vedevo spesso, per ore, sul terrazzino di fronte al mare, immerso nella lettura di enormi mucchi di giornali che gli arrivano alle ginocchia, nel tentativo - lo comprendo oggi - di cogliere in profondità non tanto le manovre dei partiti ma la vita del paese, i caratteri di una società che sentiva complessa e disarmonica ma il cui primato rispetto alla politica riteneva comunque andasse ribadito e difeso. Anzi, per lui la politica era positiva proprio quando, invece di sovrapporsi alla società, era in grado di capirne, ordinarne, guidarne le istanze. Al Consiglio Nazionale della DC dirà nel 1974: «Un partito che voglia guidare, non può non capire, non può non seguire, non può non farsi carico di tutto quello che è alle sorgenti della sua funzione politica: la realtà concreta degli interessi, dei valori, dei pensieri, degli ideali nella quale si muove il cittadino, come protagonista della vita politica». Non sorprende allora che, leggendo gli scritti di Moro, vi si veda progressivamente emergere anche una crescente lucidissima consapevolezza della lontananza che si stava creando tra politica e società e degli effetti che essa avrebbe potuto determinare sulla vita collettiva e sulla solidità del sistema democratico.
Ultimo elemento. Moro è stato anche «politico della parola». Certo aveva uno stile personalissimo e il suo periodare, divenuto quasi leggendario, è stato oggetto di infiniti motti salaci in merito alla sua involuzione o voluta oscurità. In realtà, a rileggere oggi i suoi discorsi, essi appaiono assolutamente chiari nelle intenzioni e conseguenti nelle argomentazioni, anche se mai aggressivi e demagogici. Ed infatti Moro fu capace di farsi capire perfettamente nelle piazze ed ebbe una sua forma di pedagogia popolare, tipica della stagione della democrazia dei partiti, presentando la politica come lenta introduzione alla comprensione dei fatti e delle scelte possibili.
Insomma, della storia del nostro paese Moro è stato uno dei protagonisti di primissimo piano ma anche un osservatore lucido e attento come pochi, capace in più occasioni di spiegare il paese a sé stesso; e di questa storia è stato, lui stesso, un prodotto importante. Riflettere su di lui aiuta a capire non solo l'Italia di ieri, ma quella di oggi, e i suoi problemi. E parlare della sua vita aiuta anche a chiarire qualcosa - e non secondaria - circa la solitudine da lui sperimentata durante il sequestro, quando gli sembrò di percepire porte chiuse per le scelte essenziali della sua vita e per la qualità della democrazia che il suo lavoro aveva prodotto, o facilitato.
È possibile, in conclusione, definire l'essenza del contributo di Aldo Moro alla storia della nostra Repubblica? Non è facile, ma vorrei proporre egualmente qualche rapidissima suggestione.
Moro è certamente uno dei grandi artefici di ciò che siamo: ha contribuito in modo determinante a dare a questo paese la sua costituzione, il miracolo economico, la società aperta dei movimenti sociali degli anni sessanta e settanta. Nel novembre 1945, alla vigilia del processo che lo avrebbe portato a candidarsi alla Costituente, Moro scriveva:
Certamente ci vuole prudenza ad evitare al mondo rovine maggiori di quelle già sperimentate. Ma bisogna che la fretta impulsiva e cieca della rivoluzione dia ai nostri spiriti, che vogliono essere prudenti e onesti ad un tempo, una straordinaria ansia di fare, perché, al di là delle soluzioni demagogiche, questo popolo che sale sia aiutato a raggiungere degnamente e con merito la sua meta lontana.
A questo impegno di fondo con gli italiani e a questa ispirazione di fondo nel realizzarlo egli è rimasto sempre fedele. E proprio per questo la sua figura di politico ci appare particolarmente importante oggi.
In un'epoca in cui la politica tende alla semplificazione, ci ha testimoniato il valore di una politica della complessità. In un'epoca in cui i fanatismi e i radicalismi religiosi sembrano innalzare muri invalicabili, e in cui "storici steccati" tra credenti e non credenti sembrano riaffacciarsi (quando li credevamo superati), ha ricordato, da credente impegnato in politica, che i cattolici non sono portatori in essa di alcuna verità esclusiva. In un'epoca di difficoltà della politica, ha spiegato come pochi - assieme - la crisi e il valore della politica stessa. In un'epoca di distacco tra istituzioni e mondo giovanile, ha manifestato una straordinaria attenzione ai giovani e ai problemi della loro educazione come anticipazione essenziale del futuro (fino all'introduzione dell'educazione civica nella scuola italiana). Nell'epoca del mondo globale, è stato un costruttore di reti tra stati e tra popoli, ed è stato uno dei primi a parlare di «opinione pubblica mondiale».
È questo il Moro che dobbiamo riscoprire come ricchezza per il presente e per il futuro del nostro paese.